di Siriano Evangelisti
A dir la verità, all’epoca del fatto qui raccontato Cesare Bazzani era solo (si fa per dire) “Ing. Grande Uff.le architetto”; Sua Eccellenza lo sarebbe diventato alla fine degli anni ‘20, quando entrò a far parte dell’Accademia d’Italia, con tanto di feluca e spadino, divisa con alamari e congrua indennità. Nell’attesa, il Bazzani sin dal 1905 aveva iniziato a lavorare dalle nostre parti, precisamente a Treia, incaricato dai frati di restaurare l’antica chiesa del SS. Crocifisso. E dato che sul posto si era anche interessato, nel 1922, presso la locale Amministrazione comunale per ottenere l’incarico di realizzare il monumento ai Caduti. Una piccola commissione, certamente, per un professionista che pensava in grande e che stava già ponendo le basi dalle nostre parti per interventi che avrebbero comportato una trasformazione radicale del centro storico del capoluogo. Per il monumento ai caduti il momento era quanto mai propizio: a distanza di pochi anni dalla fine di un conflitto che vedeva – per la prima volta – la giovane nazione sedere al tavolo dei vincitori, nascevano in ogni Comune, piccolo o grande, Comitati per la realizzazione di un ricordo, bronzeo o marmoreo, dei numerosi Caduti della grande guerra (oltre 600mila): un ricordo che si concretizzava in una o più statue di soldati all’attacco o colti nell’atto della morte o, nei centri più modesti, in un cippo o in una lapide con i nomi dei Caduti. In alternativa, o anche in contemporanea, era prevista l’istituzione di “parchi della rimembranza” con alberi ognuno recante il nome del Caduto. A Treia si optò inizialmente per il monumento, da collocare isolato sulla passeggiata di San Marco; ma il costo era eccessivo per cui si ripiegò su una grandiosa lapide (3 x 4,60 mt.) racchiudente una targa marmorea con i nomi dei 150 treiesi Caduti, da collocare sulla piazza principale, addossata alla parete limitrofa al mercato annonario. Una targa contornata da fregi in bronzo, scritte dedicatorie, palme votive e una figura – la Patria vittoriosa – alta 2 metri. Il tutto a un prezzo concordato di £ 24.000. Un importo destinato però ad aumentare a £ 32.000 nel giro di pochi mesi su richiesta del Bazzani, a causa di modifiche sostanziali del progetto iniziale, come a esempio la statua della Patria che ringuaina la spada vittoriosa, elevata da 2 a 2,70 metri, oltre a scudi, festoni, stemma civico, sempre in bronzo. Tutto bene, quindi, solo che in corso d’opera si venne a scoprire casualmente che la statua era identica a quella già inaugurata a Frosinone, sempre per un monumento ai Caduti. In sostanza quella di Treia era la seconda statua uscita dalla stessa fonderia. Il ricorso al giudice fu inevitabile e nel febbraio del 1926, dopo un lungo dibattimento, il Tribunale di Macerata dichiarava l’inadempienza contrattuale del comm. Bazzani, ingiungendo allo stesso di rimuovere il manufatto entro 2 mesi, restituire il denaro incassato con gli interessi e pagare le spese legali. Ovviamente seguì il ricorso in appello, con tanto di perizie giudiziali e stragiudiziali di esperti che ribadirono la natura identica delle due statue “e cioè cavate dallo stesso modello per la fusione in bronzo”. Nel frattempo all’avvocato del Comune, Vittorio Cervigni, si aggiunse l’Onorevole avvocato Serafino Mazzolini, una autorità non solo in sede regionale. Di ciò dette notizia l’Azione Fascista. Non sono ancora riuscito a trovare traccia del seguito della vertenza. Ritengo comunque che il tutto abbia trovato una pacifica soluzione. Infatti nel frattempo Bazzani era divenuto Accademico d’Italia e uno dei più considerati architetti di regime. Il monumento, che doveva essere rimosso, venne invece solennemente inaugurato il 3 dicembre 1932, con fanfare e discorsi, alle presenza delle autorità civili, religiose e militari e dello stesso Bazzani. In conclusione, mentre il costo iniziale era di £ 24.000, passato poi a £ 32.000, si concluse alla fine in £ 40.000, come risulta dal rendiconto riportato nell’opera “Realizzazioni del regime nella provincia di Macerata” del 1934. “Mondo vecchio, sempre nuovo” diceva il buon Bacchelli nel “Mulino del Po”.
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