Al Teatro Lauro Rossi “Servo di scena”
Alto, occhi cerulei limpidissimi, la faccia imbronciata che si scioglie subito in un sorriso, i capelli imbiancati non intaccano il fascino di sempre. Così, Franco Branciaroli si presenta a noi nel camerino del teatro Lauro Rossi. Ci godiamo tutto ciò che succede prima che si alzi il sipario, ignari che quella situazione la rivivremo, ma da spettatori. Con la sua presenza, Franco Branciaroli, da autentico mattatore, ci porta subito nella dimensione dell’iperteatralità che è il concetto su cui si fonda “Servo di scena”. Appena entriamo nel suo camerino, il direttore di scena avverte che manca mezz’ora al sipario. Sul palco, Sir a Madge: “Mi sono sdoppiato prima di andare in scena, sono uscito fuori di me”, lo fa anche con noi per cui è sia l’intervistato che l’intervistatore. Siamo nella finzione o nella realtà? Ci lasciamo guidare affascinati. Nei panni di Sir, Branciaroli è un attore in declino, aiutato dal suo servo di scena (il maggiordomo) Norman a non abbandonare il palcoscenico e a salirvi da protagonista per l’ennesimo Re Lear. Come Norman rappresenta l’essenza stessa del teatro per la gratuità dei suoi gesti, il crollo di Sir coincide con la disfatta della potenza britannica. La storia si dipana nella Londra degli anni ‘40 bombardata dai nazisti, dov’era un’abitudine rifugiarsi nei teatri. “Questi porci tedeschi non mi fanno mettere in scena Shakespeare” dice Sir inorridito dal rumore dei bombardamenti. Sir, con l’appoggio di Norman, riesce a portare il suo Re Lear sul palcoscenico in barba alla guerra, ma non senza fatica. Prima del sipario, sbaglia le battute dicendo quelle del Mac-beth, si trucca da Otello, è catatonico al momento dell’ingresso in scena. Poi, come per miracolo, ogni cosa si risolve perché in teatro, come dice Norman: “E’ come se ci se ci fossero sempre la primavera e l’estate…”. Branciaroli ci sottolinea come la scenografia rappresenti il forte realismo e la profondità del teatro inglese. Davanti agli occhi dello spettatore c’è un palcoscenico in basso, dove c’è l’uomo (Sir) che interpreterà Re Lear, nel palcoscenico sovrastante c’è il Re Lear recitato, cioè quello della finzione nella finzione. A sua volta, il palcoscenico in alto è diviso nel “dietro le quinte” e “pal-co”, anch’essi due piani interscambiabili per far vedere allo spettatore il Sir applaudito come Lear e il Sir che si prepara ad andare in scena, la morte di Lear sopra e la morte di Sir sotto, la maestosità dell’arte e la meschinità della vita. Il livello sottostante è il camerino di Sir ed è il palcoscenico per noi che siamo in teatro ad assistere allo spettacolo. C’è un attore che fa l’attore, il palcoscenico nel palcoscenico, la scena nella scena. Questa è la dimensione del “teatro nel teatro” che abbiamo appreso da Pirandello? chiediamo a Branciaroli. E lui: “E’ anche oltre: è l’iperteatralità, la metateatralità”. “Il mio prossimo spettacolo sarà Il Teatrante di Thomas Bernhard, dove interpreto l’attore Bruscon, anche qui c’è una sorta di teatralizzazione del teatro”. Come mai sceglie sempre ruoli simili tra loro? (vedi anche la doppia imitazione di Vittorio Gassman e Carmelo Bene nel Don Chisciotte) “Perché da tanto tempo a teatro non succede più nulla. Mi butto nei medesimi personaggi senza neanche accorgermene, mi viene naturale. Il prossimo sarà il terzo spettacolo che faccio così e tre indizi fanno una prova!”. Dietro la porta del camerino il direttore di scena urla: “Un quarto d’ora!” Ci svegliamo come da un sogno, Franco Branciaroli ha ancora pochi minuti per prepararsi e salire sul palcoscenico. Ci saluta in modo confidenziale e scappa via: “Ciao!” Non ci siamo neanche accorti se fosse Re Lear, Sir o Franco Branciaroli, ma ci siamo resi conto, poi rivedendolo in scena, che un qualcosa di divino deve pur averlo.
Raffaella D’Adderio