di Matteo Ricucci, terza puntata
Gli emarginati, dal canto loro, impararono ad aver fiducia nei potenti, a non temerli più, ad amarli di un amore sincero. Filippo stimolava i più indecisi a comunicare direttamente con il Dio degli umili e dei pazienti. Organizzò mense gratuite per gli affamati, convinse moltissime prostitute ad abbandonare la loro vita dissoluta immergendosi nelle limpide acque purificatrici della misericordia di Dio.
La religione della strada
Un tale tipo di apostolato s’identificò con l’appellativo di “Religione della Strada” per la sua specifica tendenza ad andare incontro agli emarginati, agli sbandati, ai sofferenti, agli affamati, ai ghettizzati. Era quella la stessa umanità che il Caravaggio reclutava per usarla come modelli nelle storie dipinte sulle sue pale d’altare: vecchi racchiusi in abiti poveri e stracciati, senza scarpe e con piedi sporchi di polvere, esseri minati dalle malattie e dall’infelicità di nullatenenti spesso morenti di fame per strada, nella cieca indifferenza dei passanti. Egli li rispettava e, molto spesso, esprimeva la loro sofferenza, con affetto e con dignità, ma sempre nella loro concreta condizione di esseri umani, sia pure spogliati di tutto.
Personaggi del mondo reale
Erano personaggi del mondo reale, non inventati, erano esseri umani con un nome e un cognome, proprio come i ricchi e i potenti, ma che nessuno citava, che nessuno avvicinava se non per deriderli. Erano anch’essi figli di Dio, senza orpelli, senza falsificazioni, erano così come Dio li aveva voluti, tasselli di un mosaico che soltanto il Creatore dell’Universo sapeva comporre. Essi chiedevano ai compagni di viaggio su questa terra ingrata soltanto di essere amati, di essere accolti e non scacciati. Non è accertato che il Caravaggio abbia conosciuto e frequentato personalmente Filippo Neri il quale, attorno alla metà degli anni novanta del ‘500, era alla fine del suo apostolato, ormai vecchio, ma con un costante sorriso sul viso sia pure malinconico, devastato dalle rughe e dalla consapevolezza della cruda realtà che lo circondava.
S. Filippo Neri conosceva la fama del Caravaggio
Viveva come un recluso in tre stanzette della congregazione dell’Oratorio in Santa Maria della Vallicella. Certamente egli conosceva la fama di quel giovane e geniale pittore che tanto faceva parlare di sé tutta Roma, nella buona e nella cattiva sorte. I suoi informatori sul suo conto erano i nobili e ricchi amici dell’Oratorio, ferventi estimatori, collezionisti competenti e possessori di sue opere pregevoli. Siccome fervevano lavori di restauro nella chiesa dell’Oratorio, era in programma la committenza di alcune pale d’altare per le cappelle private da affidare a giovani pittori che si fossero assunto l’obbligo di applicare le rigide norme dettate dal cardinal Paleotti e da Carlo Borromeo i quali avevano a cuore il decoro delle pitture sacre che nelle chiese sarebbero state esposte alla venerazione dei fedeli. Non fu certamente un calcolato scambio di convinzioni ideologiche il loro, ma entrambi trovarono nel nuovo naturalismo pittorico un punto d’incontro di quella nuova “Religione della Strada” che insegnava al mondo la fratellanza di tutti gli esseri umani di fronte al Sommo Padre.
La pala d’altare
Furono queste le ragioni che spinsero Pietro Vittrice, influente e ricco oratoriano, collezionista e critico estimatore del Caravaggio a commissionargli una pala d’altare per una cappella della Chiesa nuova di Santa Maria della Vallicella. Nelle precedenti pale di San Luigi dei francesi, di Santa Maria del Popolo, il Caravaggio aveva dipinto le figure umane in forme di viandanti, poveri pellegrini calati nella loro eterna pochezza di emarginati della società, chiusi nell’intimo dolore di chi accetta con rassegnazione il proprio ruolo di vittime di un’ingiustizia secolare. Nel 1603 Michelangelo Merisi consegnò all’Oratorio “La Deposizione” in cui seppe raggiungere una perfetta sintesi tra forma e rappresentazione del simbolo, seppe scolpire con le ombre corpi perfetti che dialogavano con la luce, seppe campire lo spazio in modo da trascinare lo spettatore all’interno della tomba e farlo coprotagonista del dramma sacro, attirando il suo sguardo lungo la grande spinta diagonale che dalla mano penzolante di Gesù corre in alto a intersecare le braccia spalancate di una dolente Maria di Cleofa, che richiamano sottilmente la Croce.