Quella volta che…
“No, no e poi no! Il permesso per fare l’incontro non te lo firmo!” – “Ma perché? Mamma! A me il pugilato piace tanto!” – “Sì! Ma a me no! Perché è uno sport duro e crudele e io non voglio!” – “Allora lo chiedo a babbo!” – “Sì, stai fresco… lui l’ha praticato da ragazzo e ha preso tanti di quei pugni che ancora se li sente… vedrai come firmerà!” Lui ci rimaneva male e ci stava male davvero. Vent’anni, alto un metro e ottanta, un bel fisico muscoloso ottenuto con tanta palestra, veloce, preciso e anche bravo. L’allenatore e noi, i suoi amici, contavamo su di lui perché sapevamo che avrebbe potuto diventare un bel campione. A casa sua, però, non erano dello stesso avviso. Ma il boxeur continuò a prepararsi con grande buona volontà e arrivò la vigilia dell’incontro… “Come si può fare per la firma sul permesso?” A scuola avevo perfezionato, per giustificare le assenze, la “tecnica finestra” che dava sempre un buon risultato. Un sistema semplice. Bastava procurarsi un documento con la firma richiesta, porlo contro un vetro di una finestra e metterci sopra il foglio da firmare. Usando la trasparenza dovuta alla luce proveniente dall’esterno era facile, ricalcandola, falsificare una firma in maniera accettabile. Un metodo antico, collaudato ed efficace. Così il documento venne presentato e lui fu “autorizzato” a combattere. L’attesa era tanta, immense le speranze di vittoria ma… sul ring salì un “dilettante” che combatteva da più di 5 anni; mai passato di categoria in quanto, non avendo una grande intelligenza pugilistica, non era un granché pur essendo un grande picchiatore. Il mio amico, al suo primo incontro, si fece prendere dalla emozione e sbagliò tutto. Avrebbe potuto vincere con facilità se fosse stato sereno e tranquillo ma l’emozione e le urla di tutti noi suoi sostenitori lo bloccarono. Al terzo round lo portammo negli spogliatoi con gli occhi completamente chiusi e contuso dalla vita in su. Il medico fece quanto possibile per rimetterlo in sesto e disse che avrebbe dovuto nutrirsi per 15 giorni con liquidi, con la cannuccia e starsene riposato, mettendo sulle “more” una pomata due volte al giorno. Con la maggiore delicatezza possibile lo caricammo in macchina per accompagnarlo a casa. Dovevamo trovare assolutamente una scusa plausibile per la madre. Dopo vari tentativi ci sembrò logico raccontarle che giocando sulla ferrovia a mettere le monetine sulle rotaie, in modo che fossero schiacciate dalle ruote del treno, gioco che facevamo spesso, all’arrivo del treno ci spostammo ma lui perse l’equilibrio cadendo lungo la scarpata a lato dei binari. Avevamo anche pensato che la madre vedendolo in quelle condizioni non sarebbe andata a cercare tante cose ma si sarebbe preoccupata per lui. Però… arrivati a casa, messolo seduto in cucina e raccontata la storiella, vedemmo la donna fermarsi per un attimo… poi, presa dall’ira, sfilare dal cassetto una grossa paletta, di quelle usate per girare la polenta, con la quale iniziò a menare botte da orbi al figlio, urlando: “T’hanno messo ko loro! Adesso ti ci metto pure io! Così la prossima volta ci pensi bene prima di andare a combattere!” Ci lanciammo su di lei “disarmandola”, tentando di calmarla e facendole capire che il figlio aveva bisogno delle sue cure e non di palettate. Lei, ripresasi, ci chiese di aiutarla a metterlo a letto indossando, finalmente, i panni di una mamma premurosa. Dopo aver dichiarato la nostra disponibilità totale per qualunque necessità lui avesse avuto bisogno passammo ai saluti, certi che il ko aveva messo fine a una brillante ma brevissima carriera pugilistica.
Cesare Angeletti