Tommaso Campanella

Uno spirito libero, II puntata

 

Anche quella volta due suoi gelosi confratelli lo denunciarono, e, ancora una volta, riuscì a fuggire. Le forze di polizia spagnole, famose per solerzia e per efficienza, catturarono di nuovo l’orgoglioso frate e lo relegarono nell’orribile prigione di Castel Nuovo di Napoli, nell’attesa di un nuovo processo. Anche se torturato e strettamente segregato, fra Tommaso riuscì così bene a simulare la pazzia da sfuggire alla pena di morte, guadagnandosi in compenso il carcere a vita. Ma nemmeno quella volta la sua forza creativa fu scalfita perché egli riuscì a scrivere le sue opere politiche: “Monarchia di Spagna” nel 1600, “Gli aforismi politici” nel 1601, “ La città del sole” nel 1602, opera questa che gli studiosi hanno giudicato lo spartiacque del suo sistema teoretico il quale s’era già allontanato daldeismo e dal panpsichismo di Telesio e da ogni altro tentativo di congiura antispagnola, ma ancora molto lontano dal maturo pensatore del “Quod reminiscetur” (1608-1618), della ”Metaphisica” (1609-1623) e della “Theologia” (1613-1624). Nel 1616, in occasione del primo processo contro Galileo, egli fu l’unico che, con coraggio e disprezzo del sicuro inasprimento di pena che gli avrebbero inflitto, prese le difese del suo amico dei tempi di Padova, scrivendo: “Apologia pro Galileo”, un’opera ricca di cultura filosofica e teologica in cui dimostrò che il grande scienziato toscano, sposando il sistema copernicano, non aveva tradito i dogmi della Chiesa cattolica ma aveva aperto la via alla Nuova Scienza, foriera di fruttuosi futuri sviluppi. La lunga detenzione lo convinse lentamente ad addolcire le sue convinzioni giovanili e si sforzò perciò a orientarle in un senso più ortodosso, affermando che il cattolicesimo è la sola religione positiva (Religio Addita) che incarna perfettamente la religione naturale (Religio Indita), quindi la sola a essere destinata a imporsi universalmente. Scarcerato nel 1626 il Campanella riuscì a conquistarsi la simpatia di Papa Urbano VIII, ma non riuscirà mai più a scrollarsi di dosso i potenti nemici, visibili e invisibili, ostinatamente motivati a mandarlo sul rogo. Dopo la scarcerazione anche il suo pensiero politico cambiò gradatamente, dirottando versola Francia le sue simpatie di imperio universale che in passato erano state tutte a favore della Spagna. E’ strano come a volte la vita di due illustri personaggi si possa snodare su binari paralleli: sia Giordano Bruno che Campanella, nonostante la differenza d’età, percorsero, all’inizio delle loro carriere di filosofi e ricercatori di verità, le medesime tappe che porteranno poi a vicende diametralmente opposte. Il primo sviluppò un sistema teoretico radicalmente rivoluzionario che proponeva la distruzione di tutte le religioni rivelate che, a suo dire, erano colpevoli della corruzione e della degradazione dell’intera umanità e prevedeva la nascita d’una religione razionale che riconosceva, come vera e unica età dell’oro dell’umanità, il tempo di Ermete Trismegisto, mago egizio dai poteri sovrumani. Il Nolano, nei rapporti con il mondo universitario appellò i suoi docenti “asini pedanti”, procurandosi così in ogni luogo fieri nemici. Non prese in considerazione nemmeno l’eventualità d’essere catturato, ritornando in Italia per soddisfare la curiosità d’un “nobilastro” di nome Mocenigo il quale sperava che quel filosofo, che reputava mago e anche un po’ pazzo, gli rivelasse il segreto d’un facile arricchimento. Bruno, convinto che i suoi sogni visionari non si sarebbero realizzati, non seppe o non volle dissimulare, né ritrattò e fu così che scagliò contro gli allibiti giudici del Tribunale dell’Inquisizione la famosa frase: “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla!”. Il 17 Febbraio del 1600, il Nolano chiuse la sua vita sul rogo, in Campo dei Fiori, con la lingua “in giova”. Fra Tommaso Campanella, al contrario, dopo sofferenze inenarrabili, lunghissime detenzioni e atroci torture, beffando i suoi giudici con una falsa pazzia, si guadagnò anche il perdono del Papa e fu liberato nel 1626. Riparò a Parigi, dove, nel 1639, chiuse la propria vita come stimatissimo filosofo di corte, presso l’aurea reggia del Re Sole.

Matteo Ricucci

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