Uno spirito libero, I puntata
Giovanni Domenico Campanella nacque a Stilo, Reggio Calabria, nel 1568 e morì a Parigi nel 1639. Fu dotato di un’acuta intelligenza e di una vivacità di carattere tutta meridionale che sin dalla giovane età lo spinsero spontaneamente a investigare la natura in cui era immerso e a sperimentare le umane possibilità di rivelare i segreti del mondo. Questo iniziale apprendistato naturalistico condizionò il suo pensiero futuro e lo convinse di essere quello l’unico metodo di studio della realtà tutta, diventando così uno spontaneo e viscerale avversario di ogni sistema di pensiero dogmatico, imposto dalla tradizione sia teologica, sia filosofica. Era figlio di uno “scarparo” illetterato e povero, senza mezzi sufficienti per procurargli un docente che gli insegnasse i primi rudimenti della conoscenza. Il suo mondo esistenziale fu una specie di laboratorio alchemico in cui s’immerse non per cercare la pietra filosofale, madre gelosa del proprio oro, ma una fucina in cui risolvere i suoi quotidiani problemi di sopravvivenza e sperimentare strumenti con cui studiare le leggi dell’Universo immenso. La vita, in quei tempi lontani, non era facile per un giovane che percepiva, molto prima dei suoi coetanei, le ingiustizie sociali di un mondo condizionato da un tardivo feudalismo, imposto con violenza e con coercizione dalle truppe di occupazione spagnole che strappavano dalla bocca dei poveri calabresi persino un tozzo di pan secco con cui tacitare i morsi di una fame cronica. Imparò subito a odiare quegli arroganti stranieri che guatavano, dall’alto in basso, l’umanità soggiogata dalla loro prepotenza, affilando i suoi mezzi per contrastare la loro avidità. Per sfuggire alla loro caccia spesso si nascondeva tra anfratti montani e spiagge deserte che si popolavano, quasi per magia, dei suoi sogni, delle sue aspirazioni e dei suoi solitari ragionamenti intorno a una città utopica, la Città del Sole, illuminata dalla Suprema Giustizia. Si dice che qualcuno lo consigliasse di farsi frate perché, se la conoscenza era la sua unica ragione di vita, i libri dove cercarla si trovavano più facilmente nei conventi. Allora il ragazzo non frappose indugi e, all’età di soli quattordici anni, fuggì per entrare nell’ordine dei frati domenicani. Mutato il nome Giovanni in Tommaso, si tuffò nello studio dei voluminosi tomi della ricca biblioteca conventuale, come un pesce nelle chiare acque del mar meridionale. Ma non furono certamente né la religione né la fede le ragioni che lo spinsero a vestire il saio, no! furono l’amore per la filosofia e la sua ardente sete di verità. La curiosità ben presto lo spinse a infrangere la rigida regola dell’ordine, studiando di nascosto, anche e soprattutto, i testi proibiti di un Erasmo da Rotterdam, di un Ficino, di un Pico della Mirandola, di un Gioacchino da Fiore e, in particolar modo, di Bernardino Telesio, un monaco benedettino, calabrese come lui, alla cui opera “De rerum natura” s’ispirò per scrivere, nel 1591, “Philosophia sensibus demonstrata”. Il suo attivismo intellettuale allarmò i suoi superiori ed egli, presago dei futuri provvedimenti disciplinari, fuggì a Napoli dove studiò con G. Della Porta magia e occultismo, dalla cui esperienza scaturì l’opera “De sensu rerum et magia” che vide la luce soltanto nel 1620. Il naturalismo antiaristotelico e la sua simpatia per la magia, descritti nelle sue opere, gli costarono un primo processo per eresia nel 1591. Riuscì di nuovo a fuggire dal convento, prima a Roma, poi a Firenze, infine a Padova, dove conobbe e fece amicizia sincera, almeno da parte sua, con il già famoso matematico e scienziato Galileo Galilei. Fu ancora una volta denunciato e di nuovo catturato e processato. Il tribunale dell’Ordine domenicano, gli impose di ripudiare il panpsichismo di Telesio e il suo naturalismo antiaristotelico e lo relegò, sotto stretta custodia, in un convento della sua Calabria nel 1598. Fra Tommaso non si perse d’animo e decise di passare dalla teoria alla pratica, organizzando una congiura antispagnola con lo scopo di fondare uno stato utopico, basato su d’una nuova religione naturale e una nuova Società in cui fosse praticata la comunione dei beni e delle donne, finalizzata quest’ultima, al controllo demografico delle nascite al fine di selezionare cittadini idonei a realizzare il suo mondo utopico.
Matteo Ricucci