I “Racconti medievali” di Liana Maccari

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Liana Maccari, treiese, è una insegnante e una studiosa di storia, fatto che traspare dal suo ultimo lavoro: “Racconti medievali” (ha già pubblicato, sempre con le Edizioni Simple, il romanzo “Corri a scuola durante il terrorismo”). Sono 72 pagine permeate di ironia, forse è meglio dire: di autoironia, riferita non a lei ma al popolo piceno cui lei stessa appartiene. La storia, appunto, quella medievale che, però, non è la stessa che siamo stati abituati a studiare a scuola. Sì, perché c’è un’altra storia (e i lettori de La rucola lo sanno benissimo, sia che condividano o meno), quella oscurata per “ragioni di stato”. Liana Maccari ha evidentemente seguito, percorrendola, la strada tracciata dal professor Giovanni Carnevale, e magari anche gli scritti di coloro che stanno approfondendo le ricerche sui Franchi, quel popolo che è in Francia (Picena) e non in Gallia. Il volumetto “Racconti medievali” è composto da 70 pagine che si sviluppano in nove capitoli, ognuno dei quali narra una vicenda e siccome tutti i santi finiscono in gloria, la storia del centro Italia finisce in terremoto, ma un sisma così disastroso da coinvolgere Roma e, si sa… se finirà la caput mundi finirà anche il mondo… sarà vero? Il dubbio è angosciante e per alleggerire la tensione vi proponiamo, tra i racconti del libro, quello che più ci ha divertito: l’elefante di Carlo Magno, altro non fosse che per la fine fatta dal bestione e per il commento finale su Macerata… Tralasciamo le righe dedicate ai tedeschi, per pura pietà nei loro confronti, e dedichiamoci a Carlo Magno che passa per Macerata portandosi appresso l’elefante: dicono gli storici che fosse un regalo dei bizantini, la dote della moglie. Una specie di maiale al quadrato, gigantesco che non ce n’è l’uguale nemmeno nell’immaginazione. Anzi, che dico maiale, aveva le zanne! Un cinghiale. Ma una razza grande, grande grande, e del resto lì erano tutti grandi e grossi. Andò così che l’elefante morì, lì in provincia di Macerata. I contadini, quelli che lavoravano la terra, intanto che i Franchi facevano la guerra contro i Longobardi, i Turingi, i Rezii, i Burgundi, gli Unni e a volte contro i Romani dell’Abbazia di Fiastra, e anche contro i Sassoni a nord del Monte Franco, i contadini, volgo disperso che nome non ha, lo fecero sparire. Ci fecero le salciccie ma (ndr: una tradizione, quella de fa’ le sargicce, che ancora continua nelle nostre zone di campagna) non tutte di quell’animale lì, lo mescolarono con il maiale, che ognuno ne allevava almeno uno, di nascosto dei soldati (lo virbo de li contadì’ non s’è curato mai in tanti seculi). Carlo Magno si arrabbiò, tanto ma tanto: era convinto che l’elefante glielo avevano fatto fuori i contadini, proprio che glielo avevano ammazzato. Ma non trovava più manco gli scarti. Infatti dentro le salciccie c’era anche il maiale. Era impossibile trovarlo. Carlo Magno li maledisse e dicono poi che per il dispiacere, appena tornò a casa sua, a San Claudio, andò in chiesa a pregare e nella cappella palatina morì, in piedi, arrabbiatissimo. Lo seppellirono lì sotto. La maledizione era che i maceratesi non capivano niente della Grandezza e che ce l’avrebbero sempre avuta contro. La loro città sarebbe diventata “il cimitero degli Elefanti”. Infatti l’Elefante gli si rinfacciò subito. Tutta la pista andò a male. Ora non vi stiamo a trascrivere tutto il racconto, per non rovinarvi il finalino, aggiungiamo solo che l’autrice scrive che la pista andata a male lasciò in giro un tal puzzo che ancora oggi si sente persino dalle parti dell’Abbadia di Fiastra (ndr: Cosmari docet). In qualche modo la storia vera del Piceno si sta facendo avanti, infatti oltre agli studiosi anche gli scrittori cominciano a trarne spunti per i loro libri.

F. Pallocchini       

24 maggio 2017

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