Caravaggio: il nome della genialità

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La genialità racchiude sempre un enigma, l’impressione di una sconcertante contraddizione.
Quale essa sia è presto detto: la genialità stessa! L’uomo comune non accetta, o quantomeno non comprende ciò che sta troppo al di sopra della propria normalità. Di qui lo sconcerto. Ora, in tema di genialità artistica, non sfugge ad alcuno che essa sia rappresentata a pieno titolo da quel Michelangelo Merisi che fu detto Caravaggio, sull’opera del quale la critica non finisce mai d’indagare. A differenza di altri geni operanti in epoca precedente alla sua, di collocazione rinascimentale e classicista, egli visse un tempo in apparenza “residuale”, tra ‘500 e ‘600, quando al mondo della cultura e dell’arte sembravano prospettarsi solo ripiegamento manieristico e decadenza. In realtà fu periodo di crisi virtuosa, promotore di scelte che porteranno via via alla modernità. Egli stesso seppe interpretarlo con tale inusitata espressività da contagiare con il suo shockante realismo schiere di artisti che, si può dire, arrivano sino a noi. Una tale vicenda, in qualche modo caliginosa, e tanto personaggio, non potevano non attrarre un autore curioso e immaginifico, che proprio da situazioni conflittuali e drammatiche ha tratto i suoi racconti più coinvolgenti: Matteo Ricucci. Per la sua recente pubblicazione, ancora fresca di stampa, intitolata “Caravaggio, le ombre dell’anima”, egli ha scelto il taglio storico-biografico, analizzando il conte-sto in cui l’artista si mosse: condizioni ambientali e caratteriali, che diedero stimolo alle avventure e agli innumerevoli capolavori che ancor oggi suscitano lo stupore e l’ammirazione del mondo. Le vicende personali, il carattere litigioso e incostante portarono Caravaggio a vivere situazioni drammatiche e a percorrere l’Italia da nord a sud, eternamente in fuga, sino a toccare l’isola di Malta, avendo tuttavia Roma come patria artistica baricentrica. Lì nacque la sua maggior fortuna, lì si consumarono i drammi che ne segnarono la vita, lì furono rivolte le sue ultime speranze, quando, nel tentativo di tornarvi trovò la morte, sul litorale di Porto d’Ercole il 18 luglio del 1610. Drammatica  circostanza,  anche  questa, che la storia e le cronache non hanno sufficientemente chiarito. Essendo gran parte della sua produzione dedicata al tema sacro, non è sfuggita all’autore del libro la necessità di studiare e far conoscere il clima che maggiormente ha influenzato il taglio dottrinale e teologico delle sue opere, quello della Riforma post luterana, sullo scenario di una Roma traviata oltre che da malcostume e prostituzione, anche da una Chiesa in parte corrotta e connivente, seppure a tratti illuminata da personaggi che con la propria integrità tentarono di rimediare al malcostume e alla miseria materiale della gente. Un nome per tutti: san Filippo Neri. Luci e ombre, dunque, proprio come si connotava l’innovativa pittura di Caravaggio, che su tale contrasto impostava an-che la sua poetica, quella dell’eterno conflitto tra bene e male, tra vita e morte, tra spiritualità e passione. All’interno di tale rappresentazione si muovono gli amici, i nemici e rivali, le modelle, gli amori, in un groviglio melmoso da cui emerge, a tratti nelle opere, la particolare tensione religiosa dell’artista, che l’autore del libro partecipa con particolare trasporto e immaginazione, come si conviene a un narratore più biografo che storico dell’arte, interessato all’uomo forse più che all’artista. Nella tormentata vicenda del genio bergamasco egli indaga in senso psicologico ed esistenziale, indugiando su considerazioni  anche fideistiche. Altro aspetto fondamentale, e si potrebbe dire innovativo, è l’indagine sulla relazione che nella pittura di Caravaggio si instaura tra la vicenda personale, di azione e di pensiero, e la esegesi religiosa che egli esprime nelle sue immagini sacre. Un aspetto che sfugge ai più, ma che nel libro diventa prescrizione inderogabile e centrale: che l’autore il quale tratta l’argomento sacro debba anche essere profondamente credente, al punto che la creazione artistica sia allo stesso tempo analisi teologica e motivo di contemplazione e preghiera. Questi aspetti emergono nell’opera di Ricucci con una spontaneità che potrebbe definirsi “innocente”, fuori da ogni schema convenzionale o cattedratico: la relazione con il personaggio descritto è da credente a credente, partecipata con rara immedesimazione. Quale storico dell’arte si soffermerebbe infatti a considerare quale potesse essere la sorte  dell’artista, della sua anima nell’aldilà? Ma il libro rivela anche un intento divulgativo; vi compaiono personaggi che, estranei all’arte, ebbero grande influsso sulla cultura del tempo essendo più o meno direttamente in relazione con il mondo dell’artista. Alcuni nomi: Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Galileo Galilei. E non mancano notazioni sulla evoluzione della tecnica caravaggesca, giocata, come detto, su contrasti luministici e di tale espressività e fascino da coinvolgere un intero pianeta, quello appunto dei seguaci diretti, da Orazio e Artemisia Gentileschi a Carlo Saraceni e Bartolomeo Manfredi, sino a parentele meno strette, come quelle di Velasquez, Ribera, Vermeer, Rembrandt, Rubens, Mattia Preti. Una splendida genealogia che trova seguaci e modelli anche ai nostri giorni, se, come accade, la storiografia contemporanea arriva ad accostare il “proletario” realismo caravaggesco a quello dei “ragazzi di vita” pasoliniani, e se continuano a uscire libri sull’attualità del fenomeno con titoli del tipo “La mamma di Caravaggio è sempre incinta”. Anche sotto questo profilo non si può certo dire che il libro di Matteo Ricucci manchi di tempistica e attualità!

Lucio Del Gobbo

13 aprile 2017

 

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