Garbattì, Galantì e il rapporto del contadino con i suoi buoi

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Sull’aratro

 

Garbattì! Galantì! tre-Garbattì!

Va’ su, va’ Galantì! va’ su, Garbà!

Vàrdelu commo storce! Galantì,

d’accordu! Garbattì, sta’ fòra qua!

 

Va’ su, Galà, va’ su! …Eh, borrattì

che te pòzzi, che te… va’ su, Galà

tre-Garbattì, va’ su! Fe’, fermu lì!

Per poco non se scòssa ‘stu gabbià!

 

Eh, che glie schioppi ‘na sarvietta jó!

Chi t’ha ‘mparato a laorà’ scibbè?

Galantì, non me fa’ lu storciglió’!

 

Galantì! …Che scìi frittu ‘n procisció’!

Ténte su, Garbattì! Galà, su, a te!

Mógna dannasse a manegghià ‘ste bò’!

 

p 22 giogo marchigiano

È dubbio se il bifolco, curvo sull’aratro, metta più fatica nello spingere col braccio e col peso della persona, il vomero lungo il solco o nell’incitare colla voce i buoi aggiogati. Il bue ha questo di speciale, lasciato sciolto corre e salta al pari di ogni altro animale; ma stretto sotto il giogo diviene tardo e pigro e a volte fa prova di muoversi appena. Il povero contadino deve quindi gridare incessantemente per ottenere che l’aratro avanzi. Qualche bifolco adopera il pungolo; ma ogni giorno questo si fa più raro. Grande è il riguardo che il villano ha verso i buoi e per viste di lucro e per affezione; e altrettanto grande è in lui l’orrore di tormentarli con punzecchiate e battiture. Quello che il villano fa per incitare i buoi è dunque tutto lavoro di voce. Il modo è identico in ogni bifolco: il bue chiamato pel suo nome a ciascuna parola;  certe frasi di vera rubrica; qualche apostrofe più o meno incisiva. Di mali augurii al bue non c’è caso di sentirne: superstizioso, il villano teme che, augurato il male, questo possa incogliere davvero al caro animale, di cui è tanto geloso. Se, quasi per intimidirlo, come se quello potesse comprenderlo, il villano è lì lì talvolta per buttar fuori una frase che sappia d’imprecazione si affretta tosto a troncarla e la lascia lì, a mezzo, o la rivolge in senso più innocente. I buoi si appellano con i nomi di Garbattino, e per abbreviazione Garbà (Garbatino, Garbato), Galantino o Galà (Galantino, Galante). C’è anche Nammorà (Innamorato) e qualche Graziù (Grazioso). Alcune volte s’incontra Capità (Capitano) e se il bue ha il mantello scuro, Moro. Le vacche hanno il nome di Fiorentì (Fiorentina), Biancolì (Biancolina), Pomposì (Pomposina). Questa è tutta la nomenclatura della specie aratrice. Dico della “specie aratrice” poiché, come i Romani non accordavano l’onore della pretesta (ndr: toga intessuta con orlo di lana purpurea) ai giovanetti, se non quando avevano toccato il quindicesimo anno di età, così il villano non crede degno di nome il bue, se non quando inizia a essere sottoposto al giogo. Il presente sonetto fu pressoché stenografato lungo il solco della perticara. Quel “tre”, ripetuto spesso dal bifolco, dev’essere una corruzione della parola “tiréte” (tirate); da “tiréte” devono aver fatto per elisione “tréte” e, quindi, l’abbreviato “tré”. In dialetto, bò’ è di genere femminile.

20 febbraio 2017

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