La lattarola, lu scupì, lo sapó…

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In via della Vetreria (ndr: oggi via IV novembre) quanti rondoni in quell’azzurro quadrato che era il tetto del mio cortile: case appollaiate a corona, coi loro portoncini striminziti e le cromatiche finestre a pioggia di gerani, ove un vago ronzio conciliava il sonno nei pomeriggi d’estate arsi di calura. E com’era bello spalancare le persiane per lasciar entrare i raggi mattutini del sole che inondavano le stanze di colore e di calore! Una dopo l’altra, di quelle piccole case di mattoni, si aprivano a quell’ora le persiane di Bice, di Afrosina, di Ginetta, di Piccina, dei Borri,  dei Landi, dei Ginaldi, di Nannina, di Gisa, di Anita, di Rosina…

 

La lattaia e lo spazzino

Tutte attendevano l’arrivo di Giulia la lattaia che giungeva con il carretto carico di gradi bidoni di latte delle sue mucche e ne distribuiva coi misurini: il litro per le famiglie numerose, il mezzo litro e il quarto. Era poi la volta di Peppe, lo spazzino, che nel suo carretto di legno raccattava ogni immondizia e le donne solerti e ciarliere gli si facevano intorno: era la prima occasione della giornata per ciacolare del più e del meno. Lo amavo il mio vicina-to; era come il ciclo ininterrotto del fiume che riceve acqua dal ghiacciaio e la porta al mare: da ognuno si poteva ricevere nel bisogno, a tutti si poteva donare all’occorrenza. Era come una grande famiglia che abitava il cortile, con mille problemi ma anche con tante risorse perché il dispiacere, se condiviso, poteva essere meglio sopportato e la gioia, se vissuta insieme, moltiplicava il suo valore.

 

Il sapone

Ricordo che nel bel mezzo del cortile si accendeva un fuoco che avvampava crepitante; le fiamme danzavano vive e nella grossa e nera caldaia di rame, appoggiata sul treppiedi, con grassi di scarto e soda, le donne facevano il sapone. Era come un rito che, nell’affaccendarsi delle comari in grembiulone e maniche rimboccate, si concludeva in un momento magico: dal calderone, dopo lunga bollitura, usciva un liquido scuro e poi una massa dura e giallastra che, una volta raffreddata, si tagliava in quadrettini da suddividere fra le famiglie che avevano contribuito fornendo il materiale necessario. Un pezzo di quel sapone era prezioso e andava usato con parsimonia. Le donne, le cui mani erano divenute gonfie e arrossate, cercavano di tener lontani noi bambini e ci scacciavano con le ventole di piume che servivano per attivare le fiamme, per il pericolo del fuoco e del caldaio col liquido in ebollizione; ma era troppo forte la curiosità e, come mosche impertinenti, ritornavamo a seguire il movimento dell’operazione che era motivo di svago.

 

Il bucato e il bagnetto

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Le più esperte tingevano con polverine di Super Iride i vecchi abiti, affinché prendessero un aspetto nuovo e se l’operazione riusciva bene quell’abito veniva indossato con la stessa soddisfazione di un capo d’atelier. Il più delle volte per fare il bucato si usava la liscivia ottenuta con la cenere, che non mancava mai nelle case poiché c’erano i caminetti e i fornelli a carbone. Era una festa ogni volta che il grande secchio di zinco del bucato sfornava la biancheria profumata di liscivia; quel secchio veniva usato anche per il bagno settimanale perché a quell’epoca, nelle modeste famiglie,  non esisteva il bagno con la vasca e tanto meno la doccia; ci si lavava nel secchio, in cucina davanti al caminetto acceso; d’estate invece l’acqua nel secchio veniva esposta al sole e, quando era calda, le mamme, all’aperto, facevano il bagno ai loro bambini.

04 novembre 2016

 

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