Questione ebraica? No, “Brugnulù” a tutti gli effetti

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E’ noto il sillogismo che diceva: “Mia moglie tollera me, io tollero mia moglie, mia suocera tollera me e mia moglie. La nostra è una casa di tolleranza!”. Se questo aforisma può essere valido nell’ambito familiare, non si può applicare nei rapporti che Macerata ebbe con gli ebrei (non parliamo di israeliti né di sionisti). La nostra fu più che una coesistenza pacifica. Almeno fin dal secolo XIII qui abitavano ebrei fra la perfetta indifferenza dei maceratesi. C’erano medici, banchieri, argentieri ebrei e qualunque cittadino si serviva di loro. Questi possedevano terre, trafficavano e, perché non, talvolta imbrogliavano come un qualsiasi brugnolò. Anzi, il Comune prendeva da loro in prestito quattrini, fiorini, scudi (lo facevano anche i Papi!) ed anche lenzuola, coperte e argenterie quando capitava in città qualche personaggio di riguardo. Poi venne San Giacomo della Marca che, nel 1426, impose alle città di applicare una “O” gialla sulle spalle degli ebrei; Macerata fece le viste di dargli ascolto ma, in effetti, lasciò correre. La comunità ebraica era consistente e ad essa non fece danno il “Monte di Pietà” qui fondato nel 1468 da un seguace di San Giacomo. Si preferiva servirsi dei banchi ebraici che, non raramente, praticavano un tasso d’interesse minore del Monte che visse vita grama. Poi, nel 1555, arrivò la Bolla di Paolo IV con cui si imposero restrizioni a quelle comunità, importantissima la creazione del Ghetto. La nostra amministrazione a tale scopo costituì una speciale commissione (come diceva un Sindaco moderno della zona: “Non vulimo fà’ gnende? Facimo ‘na Cummisciò’!”) che non combinò gran che. Passate le smanie di Papa Carafa gli ebrei ripresero indisturbati le loro attività. Poi venne San Pio V e, più tardi, Clemente VIII che restrinsero gli ebrei nei ghetti di Roma e Ancona. Macerata se ne lamentò e, sotto sotto, consentì agli ebrei di venire in città. Nel ‘600 e nel ‘700 il Comune fece pressioni sulla Consulta per avere, almeno, un ghetto; ma non ci riuscì. E i commerci con gli ebrei continuarono nonostante tutte le disposizioni sinodali dei vescovi. Nel secolo scorso una famiglia di ebrei teneva un suo magazzino di merci nel palazzo Lauri, con ingresso sull’attuale vicolo Ferrari tanto che detto vicolo, nel catasto del 1829, fu chiamato Vicolo degli ebrei. Questo toponimo fece sognare agli storici maceratesi di quell’epoca cancelli ferrati, imposizioni drastiche… niente di tutto questo! Coesistenza pacifica, anzi possiamo dire di più: indifferenza dei maceratesi per un problema, per loro, inesistente.

 22 settembre 2016

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