Il Guerriero di Capestrano tra fantasmi e misteri

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La più impressionante e misteriosa statua Italica, disseppellita nella necropoli di Capestrano, è senza dubbio un capolavoro incredibile,per imponenza, bellezza e dettagli della narrazione plastica raffigurante Nevio Pompuledio. Questo è infatti il nome che il professor Adriano La Regina legge sull’epigrafe. Chi fosse Nevio è uno dei molti, troppi misteri che avvolgono fino a soffocarla la preistoria dell’Italia centrale. Lo insigne  archeologo  in  un saggio su questo capolavoro (1), accenna ai “fantasmi” che popolano questo periodo della nostra storia: i Pupuni. Li chiama fantasmi perché di loro nulla si sa o si è voluto sapere, semplicemente perché, nonostante le continue prove della presenza di un popolo civilissimo pre-romano, tutto da noi e dintorni deve avere inizio dopo la fondazione di Roma. Perciò Nevio Pompuledio è un “re”, ovviamente del sesto secolo a.C. L’iscrizione graffita sul supporto sinistro della statua che La Regina traduce come “ma kuprí koram opsút Aninis raki Nevíi Pomp[uled]íi”  –me bella immagine fece Aninis per il re Nevio Pompuledio –  è una delle scritte in lingua piceno italica scolpite su una dozzina e mezza di steli funerarie rinvenute fra le Marche e l’Abruzzo, delle quali una dozzina sono nelle Marche, ad onta del fatto che si pretende questo idioma essere una lingua sabellica anziché piceno-italica (una analisi più argomentata nel mio saggio “Le Marche… una terra da rivalutare.” Fermo 2016). Siamo nella prima età del ferro (checché se ne dica in ossequio agli scritti degli inizi dell’archeologia nostrana) e questa realizzazione mi spinge a molte considerazioni oltre il noto e stantio: soprattutto sulla civiltà dei Púpúnis, il popolo misconosciuto (i fantasmi di La Regina) originale abitatore della regione che i romani almeno mezzo millennio dopo il momento culmine della loro cultura chiamavano Picentes. Ma prima dei popoli vediamo il personaggio. Nevio Pompuledio è raffigurato con unrealismo spinto sia della figura sia dei dettagli “dell’abbigliamento”. Questo è il primo argomento che mi allontana dall’ipotesi semplicistica del “guerriero” solo perché ha una spada sul petto. Accetto, ma solo in parte nel suo significato più generale di persona al vertice della piramide sociale locale, la traduzione di raki in re, e ne spiego il perché. Il nostro personaggio è abbigliato in modo  decisamente  succinto: un perizoma che copre solo il ventre e un elaborato intreccio di nastri che sostengono due anelli quasi certamente metallici con un fodero agganciato a queste “bretelle” sul lato destro del petto. Al suo interno una spada e sull’esterno un coltello; rifiuto l’opinione che il guerriero abbia anche un’ascia sotto la mano destra, perché è troppo irrealistica come arma rispetto a quelle sul petto; può essere, dato il poco spessore, una qualche decorazione. Un cappello piumato con una larghissima tesa circolare è l’elemento più appariscente dell’abbigliamento cerimoniale del soggetto. Non è certamente un elmo, neppure da parata (sarebbe l’unico esemplare fra le centinaia di rappresentazioni di guerrieri dell’areale italico dei nostri musei), come non è militaresco l’insieme delle cinghie o bretelle che formano l’unico abbigliamento del torace. Il “guerriero” è vestito in apparenza per una cerimonia nella quale i movimenti sono minimi, ieratici. Di che cerimonia si può trattare e quale è il ruolo del nostro? I dettagli della scultura sono troppo ben eseguiti per poter considerare una scarsa approssimazione al realismo, seppure si possa ipotizzare un certo simbolismo. Il primo particolare che colpisce è la totale assenza di attributi “virili” ovvero della necessaria protuberanza sotto il perizoma in tessuto ricamato sui bordi (non lo considero una protezione metallica del ventre, come lo si vede sarebbe una specie, insopportabile, della “conchiglia” che si usa in certi sport). Un guerriero e soprattutto un Re sono personaggi per i quali la virilità (vis e vir in latino quasi si confondono) è il principale requisito, confermato dai vari detti popolari sui personaggi con attributi duri o raddoppiati. Escludendo nel modo più risoluto che lo scultore abbia glissato per pudore sul realismo dell’anatomia sotto il perizoma, il nostro soggetto è una persona senza attributi sessuali evidenziata proprio dal simbolismo di un “niente” nella zona pubica: un eunuco quindi; peraltro anche privo della “collinetta” che caratterizza quella regione del corpo femminile. Le forme abbondanti seppur realistiche dei fianchi e dei glutei, e la vita piccola, contribuiscono all’immagine androgina asessuata di questo personaggio, che non ha schinieri da guerra ma calza sandali leggeri. A questo punto emerge prepotente l’ipotesi che sia un gran sacerdote dei Galli: i guardiani evirati delle sacerdotesse Sibille, gli esecutori delle misure geodetiche per i confini degli appezzamenti degli agricoltori (un’altra importante realtà della nostra preistoria conosciuta solo per le leggende medievali).

p 10 statua capestrano posteriore

Quando ho effettuato la mia prima visita al museo di Chieti dove Nevio ha una sala tutta sua con la dignità che si merita, sono rimasto colpito dal grande cappello, più sacerdotale che militare e guarda caso corrispondente al cappello cardinalizio antico, quindi la spada da parata, semplicemente un’insegna del rango. L’arma è realisticamente definita in dettaglio anche nelle minute decorazioni dell’impugnatura. Lo stesso realismo ci consente di leggere il coltello agganciato all’esterno del fodero come una lama ad un solo filo, stretta e dritta, l’attrezzo ideale per scannare le vittime sacrificali, suini od ovini che fossero (cfr Tavole Iguvine). Il gran sacerdote Nevio Pompuledio, importante sciamano della comunità, può essere per la sua funzione un capo o un membro del ristretto gruppo di persone a capo delle comunità gentilizie Pupuni. Uno degli antesignani dei “saggi” che insieme con i maschi guerrieri gestivano la società primeva forse con lo stesso principio portato a Roma ed espresso con Senatus Populus Que Romanus. Considerando l’areale italico centrale in modo meno restrittivo di quello corrente che lo vuole abitato da popolazioni di minima dimensione demografica stabilmente residenti in fazzoletti di territorio, ma dedite alla pastorizia che è nomade per necessità, possiamo avere dai nostri musei archeologici una buona informazione sulla società nostrale della prima età del ferro: insieme con oggetti che denotano chiaramente ricchezza e raffinatezza, ci sono gli indicatori trascurati di come questa opulenta società si procurasse le risorse (non mi stanco di scriverlo): i Pupuni-Picentes erano i maggiori produttori di manufatti metallici specie in acciaio, e fra questi le armi, le lunghe spade falcate e diritte che compaiono accanto ai guerrieri inumati nelle necropoli picene. Se in altre aree italiane nello stesso periodo Golasecchiano e Villanoviano le armi in acciaio sono una rarità a favore di esemplari di bronzo, quasi sempre da parata, qui invece le armi sono oggetti d’uso, semplici e micidiali. Insieme con le armi la dimostrazione di una sofisticata tecnologia ce la danno le bighe (veicolo Pupuni prima che romano che qui etichettano carro) con ruote cerchiate in acciaio, unito alla pre-senza di ricco vasellame metallico in leghe rameose, specifico delle attrezzature da campo dei comandanti di milizie armate. Certo la sconosciuta società Pupuni, non era fatta solo di guerrieri e di gran sacerdoti: esistevano una pluralità di attività dalla pastorizia all’agricoltura alla manifattura di oggetti pregiati per l’esportazione e il consumo interno e insieme con esse le attività “di servizio” terziarie. Questa pluralità di ruoli e funzioni sociali, diversamente dalla essenziale organizzazione del clan patriarcale di pastori, richiede l’esistenza di posizioni di coordinamento e di comando unite a funzioni definite e regolate da un corpus di leggi complesse che coprano gli aspetti della proprietà terriera e di beni mobili, della trasmissione fra le generazioni, di come quantificarla e documentarla a futura memoria (su supporti indelebili che non siano la memoria del singolo), una società già complessa, adulta, che usa una scrittura italica propria sviluppata in lunghi secoli (che non può quindi aver importato da improbabili pastori sabelli privi di contatti “internazionali”) e che comunica e interagisce pariteticamente sia con l’areale ligure italico sia con quello etrusco, quindi con le altre culture avanzate del mediterraneo egizio fenicio e greco. La mia esortazione è di abbandonare paradigmi rugginosi per iniziare a riscrivere la storia della società Italica prima di Roma, evidenziandone le caratteristiche strutturali economiche e sociali che si evincono dai reperti museali.

(1)

https://archive.org/stream/AdrianoLaRegina.IlGuerrieroDiCapestranoELeIscrizioniPaleosabelliche/2.Capestrano_djvu.txt

 

Rinvenimenti di spade falcate in acciaio

 p 10 cartina spade

A quelli che scrivono che le Marche ante Christum natum erano un luogo poco popolato, per giunta da gente rozza e incivile, incapace di fare alcunché, mostriamo questa cartina dove sono segnati i rinvenimenti di spade falcate in acciaio. La maggior parte sono proprio nelle “incolte” zone Picene. Questo sta a significare due cose: primo che qui c’erano persone ricche, ricchissime per potersi permettere certe armi; secondo che nel Piceno c’erano i fabbricanti di tali armi tecnologicamente assai progredite. Altro che rozzi! A ulteriore sostegno della civiltà Picena (o Pupuna) ci sono i ritrovamenti nelle tombe: persino carri da guerra con ruote cerchiate in acciaio!

Medardo Arduino   

 12 settembre 2016

 

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