Il rosso fiore della violenza XXVI puntata

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Se Katia si era prefissa di terrorizzare la povera Angela, lo aveva realizzato senza eccessiva fatica. Se, invece, con la sua lunga dissertazione, aveva voluto impedirle di pensare a cosa realmente fosse accaduto durante la notte aveva fallito lo scopo, perché Angela desiderava ardentemente recuperare la memoria di quell’avvenimento che lei considerava il più importante della sua vita: il dono della sua verginità all’uomo del suo cuore, all’uomo per il quale aveva sacrificato tutto il suo mondo e tutta la sua esistenza. Lo riteneva un suo sacrosanto diritto poiché il ricordo di quei momenti d’infinita tenerezza sarebbero stati l’ancora  che le avrebbe permesso d’aggrapparsi con tenacia alla vita, anche nella tempesta più violenta. Lei percepiva che nelle pieghe più nascoste della sua memoria e della sua coscienza si nascondeva qualcosa che non voleva o non riusciva a ricordare. A un certo punto scesero dal tram e si mescolarono alla folla indaffarata e frettolosa. Giunte davanti ad un’edicola, si fermarono per comprare dei giornali; stavano scorrendo i titoli principali quando si udì il boato d’uno scoppio violento: si guardarono ammiccando e le loro labbra s’incresparono appena in un lievissimo accenno di sorriso. Indifferenti al brusio della gente che, spaventata, s’interrogava sulle cause e sul posto di quella deflagrazione, esse proseguirono per la loro strada, paghe del successo ottenuto. Rientrarono alla  base, accolte festosamente dagli altri che si complimentarono. Anche nelle profondità del loro covo giungevano attutiti i lamentosi lamenti delle sirene delle autoambulanze e delle camionette della Polizia. Alberto era fuori per i suoi segreti conciliaboli con un misterioso burattinaio che tutta la stampa chiamava: “il Grande Vecchio”. Angela si stese sul suo giaciglio e alla luce fumosa di una candela cominciò a leggere il suo giornale. Gli altri continuavano a dissertare dei loro comuni ideali rivoluzionari e a ipotizzare le nuove mosse tattiche della loro guerra disperata ad una Società che rifiutavano e ad uno Stato che odiavano. Scorrendo i titoli Angela notò un trafiletto che parlava di suo padre. Il suo cuore ebbe un tuffo e cominciò a leggere avidamente: l’articolo parlava delle condizioni di salute del noto penalista, colpito così duramente  dalla scomparsa della sua unica figlia la quale s’era rifugiata nella clandestinità per motivi politici, dopo averne fatto saltare in aria con una bomba lo studio. Parlava dell’infarto e delle scarse possibilità di superarlo, dato il grande dolore ch’egli soffriva. Il giornalista invitava la fuggiasca a ritornare sui suoi passi, se voleva salvare il padre. Si faceva garante del fatto che le autorità avrebbero tenuto conto delle attenuanti e che i rigori della legge sarebbero stati mitigati dalla sua volontà di collaborare allo smascheramento dell’intero gruppo del G.L.P. Angela si coprì il viso con il giornale e pianse in silenzio. Pensò a quanto ingiusta fosse la vita con lei: per la conquista della sua felicità stavano pagando un prezzo così alto le persone a lei più care, un prezzo certamente da usura, vista l’entità della loro sofferenza. 

 

CORRISPONDENZA – N. 15 maggio 1972

Carmela, Amore mio, siamo rientrati  or ora da una fati-cosa marcia di venti chilometri: sono distrutto dalla fatica, ma ho un grande desiderio di scriverti, di sentirti vicina a me perché qui, nonostante la confusione che regna, io mi sento solo. Ho bisogno di te, di mio padre, del mio piccolo paese. Sono nato e vissuto nella pace della campagna, nel silenzio degli uliveti e non concepisco questa torre di Babele che è la scuola degli allievi sottufficiali. Forse la mia natura un po’ schiva fa il vuoto attorno a me. Mi isolano perché non so fare scherzi da caserma, non bestemmio e non so raccontare barzellette sconce. Ho capito che ognuno dovrebbe poter fare il lavoro più idoneo alla propria natura e nel posto che più gli aggrada. Questo però è soltanto un sogno e uno sfogo, perché sono abbastanza realista, per comprendere che questo mio desiderio non potrà mai essere realizzato. Michele Cassa, un ex compagno di scuola di V. che s’è arruolato come me ha invece tutti i numeri per fare una brillante carriera in un posto come questo: estroverso, ciarliero e manesco, è diventato subito il beniamino di tutti e in special modo del nostro Istruttore, ma io che lo conosco bene ho paura che, prima o poi, si caccerà in qualche guaio serio. Egli è posseduto da una tale carica di vitalità e da un’infatuazione politica che già al tempo del liceo lo mandarono all’ospedale per un mese, a causa delle bastonate che gli ammannirono i suoi avversari politici. Mi auguro per lui che la disciplina lo possa rendere più riflessivo e guardingo. Ieri sono stato convocato dal nostro signor Colonnello comandante il quale mi ha fatto molti elogi per come conduco avanti gli studi: è soddisfatto di me e mi ha promesso, appena possibile, di mandarmi in licenza. Credimi, non sto nella pelle al pensiero che quanto prima ci riabbracceremo. Ho già deciso che mi presenterò a tuo padre per chiedere la tua mano. Ti prometto, già da ora, che cercherò, con tutte le mie forze, qualsiasi altro lavoro che mi allontani, prima o poi, da questo posto. Riguardati e cerca di distrarti se puoi. Ti prego d’andare a trovare il mio caro vecchio e di stargli vicino il più possibile, affinché non senta molto la mia mancanza. Ti abbraccio e ti bacio e, nell’attesa della mia prossima venuta, pensami e sognami più che puoi. Tuo per sempre, Mario.                  

continua

09 agosto 2016

 

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