Il rosso fiore della violenza XXV puntata

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Il gruppo tirò un sospiro di sollievo e ognuno chiese notizie sulle reazioni della cittadinanza all’attentato alla sede del M.S.I. Angela, affascinata dall’oratoria di Alberto, aveva del tutto dimenticato i suoi personali problemi: si sentì così più sollevata e più disponibile al colloquio. Partecipò con sue personali proposte alla valutazione collegiale del programma di lotta testé enunciato  e  già  si preparava mentalmente al prossimo colpo. Il Commissario Alberico Sirtori intanto era furente e lo era ancora di più constatando che tutti i suoi sospetti e tutte le sue previsioni andavano avverandosi puntualmente. Aveva voglia di spaccare il muso al Questore, ma sapeva anche che quella era una soddisfazione che non poteva concedersi, pena la espulsione dal corpo e la galera. A 50 anni, e dopo 30 di onorato servizio, era costretto a usare giudizio e moderazione. Non lo consolava di certo la riflessione di essere stato ad un passo dal bloccare sul nascere l‘azione eversiva di quel fantomatico gruppo. Riceveva dai suoi superiori continue sollecitazioni ad accelerarne il più possibile la cattura. Purtroppo allo stato dei fatti egli brancolava nel buio, essendosi Angela dileguata nella più ermetica clandestinità. Ciò nonostante non allentò la sorveglianza sulle abitazioni della ricercata, nella improbabile speranza che avesse sentito, prima o poi, il bisogno d’andare a piangere sulla spalla di papà. Ma di ciò non s’illudeva: quella non era più ragazzina, ma una donna fatta, che, ormai, si alimentava alla pericolosa ideologia rivoluzionaria. Sapeva pure che la sua era una pia illusione: quello del G.L.P. non era un gruppo di filodrammatica parrocchiana che avrebbe permesso ai suoi guitti d’entrare e uscire di scena a loro piacimento: era legge drastica d’ogni gruppo rivoluzionario applicare la dura legge del terrore ch’era la catena che li teneva saldamente legati l’uno all’altro. Egli si sforzava d’immaginare quale fosse il loro prossimo colpo, ma il cervello gli andava a pezzi senza concludere niente. Non gli restava quindi che attendere per saperlo. Presto, molto presto si sarebbero rifatti vivi. Infatti due giorni dopo Katia ed Angela si mescolarono alla folla degli impiegati di un quotidiano cittadino e penetrate nei bagni del vasto locale nascosero le bombe dietro le cassette degli scarichi. Poi uscirono tranquillamente, senza destare il minimo sospetto. Si fermarono sul marciapiede ad aspettare il tram. Vi salirono con calma e andarono a sedere vicino all’uscita anteriore nel deprecato caso di una fuga precipitosa. Sapevano che la Polizia possedeva ormai le loro foto e che la possibilità di essere riconosciute era una eventualità possibile. A buon conto nelle loro borse c’erano due P.38 con le pallottole in canna. Strada facendo ragionarono del più e del meno, come due studentesse che stavano marinando la scuola. Ange-la, chinata verso l’amica, chiese sottovoce:  “Katia, per favore, dimmi  cos’è  accaduto stanotte. Non ricordo niente, ho un vuoto assoluto di memoria!” – “Che cosa vuoi che sia accaduto se non quello per cui tu da tempo stavi spasimando: hai finalmente fatto all’amore con il tuo Alberto”. – “Questo l’ho già immaginato per conto mio, ma dimmi, visto che non c’era un posto appartato, non mi vorrai dire che l’abbiamo fatto sotto i vostri occhi?” – “E cosa c’è di male? Questa è la vita di chi sceglie di nascondersi nei posti più impensati. Noi comunque badavamo ai fatti nostri. A buon conto non ti devi formalizzare con questi scrupoli borghesi. Sappi che ad Alberto non piacciono piagnistei, sospiri e tentennamenti. Il nostro è un gruppo armato basato sull’efficienza e sull’elasticità d’adattamento a ogni situazione d’emergenza per cui i nostri rapporti interpersonali non devono essere inquinati da sospetti e ripicche, pena la rovina del gruppo. Il che equivarrebbe a una guerra tra noi stessi. Non so se te ne sei resa conto che la nostra è ormai una situazione senza sbocchi: a questo punto non c’è più permesso di tornare sui nostri passi, perché si schiuderebbero inevitabilmente le porte della galera. Fuori dal gruppo per noi non c’è più spazio d’azione. Devi convincerti che siamo una sola persona, una sola volontà e tutto ciò che ci riguarda deve sottostare a una legge ferrea: ciò che è di uno appartiene a tutti e non ci devono e non ci possono essere beni personali e privilegi di casta: pane, amore e fantasia devono essere sempre e solo beni comuni! Sono convinta, anche se non ho prove, che dietro Alberto c’è una misteriosa e ramificata organizzazione invisibile che lo sostiene: è vero, noi combattiamo per i nostri ideali, ma sappi che noi non siamo altro che un piccolo ingranaggio di una macchina gigantesca e se, per un’ipotesi, noi con i nostri problemi personali ne inceppassimo l’azione, ci eliminerebbero senza pensarci più di tanto.  

continua

06 luglio 2016

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