Pùpunus versus Picèntes

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Ormai è da considerarsi acquisita la “scoperta” di come si auto-definivano i Piceni: le numerose iscrizioni interpretate negli ultimi anni ci hanno regalato il misterioso nome di Pùpùnùs (nominativo plurale). Che noi sappiamo ancora nessuno si è cimentato nel tentativo di sciogliere il rebus… riteniamo utile iniziare riflettendo sulla possibile pronuncia di questo etnonimo; la datazione alta delle epigrafi su cui è stato rinvenuto, nonché ovviamente la provenienza delle stesse, non dovrebbero dare adito a dubbi circa un’accentazione sulla prima sillaba, in ossequio alle regole della linguistica, secondo la “legge dell’accento italico”… quindi, Pùpuni. Molte popolazioni proto-storiche, anche di culture lontane dalle nostre, si autodefinivano etnicamente semplicemente come “gli Uomini”: ne sono esempi famosi i nomadi Rom e gli Inuit dell’America artica. Nei numerosi “dialetti” dell’Italia centrale antica, fra le varie parole significanti “uomini”, esistono anche i termini pùplum e pòplom nell’accezione di “uomini armati”. Spesso essi vengono tradotti con “esercito” (come nel caso delle Tavole Iguvine) ma, a nostro parere, in maniera alquanto riduttiva. Infatti, il pùplum citato più volte a Gubbio non è semplicemente un gruppo di armati, aventi a che fare esclusivamente con argomenti militari, bensì designa l’assemblea dei maschi autorizzati ad assumere le decisioni per la collettività poiché capaci di usare le armi e quindi, in definitiva, anche di  mettere in pratica  con la forza, se del caso, le risoluzioni medesime. In una società profondamente guerriera come quella dei Piceni, non apparirà strano che tale prerogativa fosse riservata solamente a chi era capace di combattere.

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Se il mio ragionamento è corretto, quindi, i Pùpuni non sarebbero altro che gli Uomini. Conseguentemente, appare evidente il collegamento con la parola latina pòpulus che, fra gli altri, assume anche il significato che ho appena illustrato: la nota formula Senatus Populusque Romanus suonerebbe, quindi, come “la collettività dei Romani saggi (in quanto anziani) che prendono le decisioni e dei Romani che tali decisioni attuano e difendono con le armi – se necessario”. E, dunque, a che cosa si deve il nome latino di Picèntes (aggettivato in Piceni)? La tradizione ci ha tramandato la (fantasiosa) storia del ver sacrum dei giovani Sabini che, guidati dal picchio (picus), loro animale totemico, avrebbero dato vita al nuovo ethnos. Dobbiamo tale etimologia  al romano Sesto Pompeo Festo che, nel II secolo d.C., scrisse il De verborum significatu. Sull’autorità di Tito Livio, alla voce Picena Regio, raccontando dei Sabini in marcia verso Ascoli, dichiara che in vexillo eorum picus consederit. In epoca augustea, Strabone aveva più realisticamente individuato un tale Pico nel comandante la spedizione dei Sabini. Ma, al di là delle fonti letterarie, del nostro fantomatico picchio non è mai stata rinvenuta alcuna traccia materiale, neppure nelle ricche tombe delle Marche: semmai, ricorrono numerose le immagini di cavalli e, perfino, di… lupi! La nostra opinione è che Picèntes sintetizzi la espressione “gli adoranti il dio Picus”: non a caso è un participio presente laddove la stragrande maggioranza degli etnonimi non lo è. Picus è il dio principale del pantheon pùpuno; è il principio maschile simmetrico e contrapposto a quello femminile di Cupra; le sue prerogative sono pressoché sovrapponibili a quelle del latino Mars, ma possiede caratteristiche proprie anche di Iupiter, riproponendo nuovamente quella coincidenza tra aspetti politici, civili e militari che abbiamo evidenziato per la radice pupl/popl.

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Ci piace immaginare che i Romani, schierati in battaglia a Sentino nel 295 a.C., appellassero i loro valenti e bellicosi alleati come i devoti del (loro) dio della guerra, magari assistendo poco prima dello scontro a qualche rito propiziatorio pùpuno! Come possiamo a questo punto immaginare questi guerrieri di Picus, ce lo possono suggerire i moltissimi reperti dei musei archeologici nostrani. I guerrieri invincibili non sono solo scaltri o coraggiosi, per far danni ci vogliono gli attrezzi, e più sono buoni gli attrezzi più si fanno danni (in battaglia naturalmente). Iniziamo dal vaso bronzeo della necropoli di Pitino oggi al Museo Archeologico di Ancona, sul coperchio abbiamo un’immagine plastica ed aggressiva di tre guerrieri che danzano intorno a un totem da cui escono quattro teste di lupo. Sono armati di giavellotti, elmo con cresta e scudo rotondo, il vaso è di bronzo, ma nelle collezioni archeologiche museali di quasi tutti i paesi marchigiani ci sono invece le armi di acciaio. Sì, nella terra dei Pùpuni si fabbricavano le armi in acciaio, che oltre a equipaggiare i temibili guerrieri di Marte Picus, come legge il Lanzi sule tavole Iguvine, erano una fonte delle grandi ricchezze che sempre nei nostri musei ammiriamo. Una esauriente analisi dell’aspetto tecnico delle armi Pùpuni sarebbe troppo lungo, mi limito a descrivere l’oggetto più caratteristico: la spada falcata che chiamo senza esagerazione “picena”. È certamente un’arma molto antica, pre-romana. La sua forma è particolare e ne fa la diretta discendente dell’ascia protostorica: lunga più di settanta centimetri, di poco spessore, ricurva come la falce, ma con il tagliente che si allarga a goccia alla sua estremità: è un’arma che si usa per calare fendenti. L’impugnatura non ha elsa e doveva semplicemente avere due guance di legno o osso per ben impugnare.  Sul  lato concavo, dove essa è tagliente, ha due bordi all’impugnatura per meglio accogliere la mano in modo che la spada diventi un tutt’uno col braccio. La collocazione della “guardia” d’impugnatura sul lato concavo e il tagliente solo su questo lato e verso l’estremità la rende assolutamente differente dalla scimitarra che è il nome col quale la si etichetta in qualche museo. La si definisce anche col generico termine di spada di “ferro”, anche se in metallurgia il ferro puro non esiste, ma il rapporto fra spessore e lunghezza parla chiaramente di acciaio, se no sarebbe una inutile spada di latta. Nella prima età del ferro le armi di acciaio e soprattutto queste spade sono più diffuse nelle Marche che negli altri luoghi d’Europa. Anticipano l’epoca delle spade a doppio taglio, quelle che colpiscono anche di punta.  Le troviamo anche in Spagna e in Grecia, col generico termine di machaira che identifica tutte le lame a un solo taglio anche il coltello da cucina, ma questa non è un’arma generica è un’arma micidiale. Insieme con le spade falcate picene nelle inumazioni si sono trovate lunghe punte di lancia e sottili punte di giavellotto sempre in acciaio, spiedi e alari per arrostire, morsi di cavallo e soprattutto resti delle ruote di carri a un asse da parata con cerchiature in acciaio, precursori della biga romana. Nella tomba del guerriero di Belmonte Piceno i carri erano addirittura sei! Non abbiamo timore di scrivere che i famosi e temibili guerrieri sacerdoti Salii dei primi re di Roma erano ragionevolmente dei Pùpuni nir (guerrieri valorosi) ovvero “i picentes”.

E la storia da riscoprire continua…

Medardo Arduino e Fabrizio Cortella

10 maggio 2016

 

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