LOGGIA DEI MERCANTI

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Annesso al palazzo prefettizio c’è quel monumento che per anni ha costituto il simbolo della città: la “Loggia dei Mercanti”.Questa ha visto spegnersi costantemente nel tempo il rispetto e l’amore dovutigli, fino al “massacro” del 1958. Sulle sue origini e sul suo autore sono stati compiuti diversi studi che, iniziati nel ‘600, accesero sulla fine del secolo scorso e all’inizio del corrente infuocate polemiche. Tali diatribe derivarono dalle “strane” interpretazioni dei documenti rinvenuti e pubblicati dagli storici. Costoro, secondo quanto scrive l’Astolfi, li consultarono “leggendo in essi ciò che non c’era e non leggendo ciò che dicevano di fatto”. Il primo ad asserire cose inattendibili fu il maggiore storico secentesco locale, Pompeo Compagnoni (1602-1675), il quale intorno al 1650 scrisse che l’edificio “per struttura è opera del Bramante” (1444-1514), iniziando quella tradizione “bramantesca” maceratese continuata fino al tardo ‘800. Ma il massimo della confusione cominciò a verificarsi quando, nel 1815, il conte Pallotta prese a trattare della “Loggia”, anche se l’argomento principale era diverso.

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L’esame di alcuni documenti indusse, però, il Pallotta in un grosso errore, sia di ubicazione che di cronologia. Rifacendosi, erroneamente, a un decreto del cardinal Vera del 1501, questo autore afferma che “fu necessità attendere l’edificazione fino all’epoca del governo del cardinal Sforza (1580-1581) che ne volle l’attuazione” quando, cioè secondo lui – “trovandosi Lattanzio Ventura a Macerata, il Consiglio lo incaricò anche del disegno della Loggia dei Mercanti” sicché “fabbricò Lattanzio il portico dei mercanti in forma quadrangolare con archi a tutto sesto che riposano sopra colonne isolate di forma e proporzione elegantissime… sopra il porticato innalzò una loggia coperta…”. L’equivoco è evidentissimo, si trattava infatti della loggia che fu poi destinata a sede della Rota (ora Ina),  edificata appunto  dal  Ventura.  Appare strano, però, che anche l’Astolfi, consultando i documenti del 1581-1583, pur nella convinzione che si trattasse “di altra fabbrica”, non riuscì a identificare l’edificio tardo cinquecentesco con quello documentato dal Pallotta. Lo studio, praticamente definitivo, dell’Astolfi sull’argomento si dovette alla circostanza dell’Esposizione Marchigiana organizzata in città nel 1905. Su questa materia, infatti, all’Astolfi si unì anche il Foglietti originando un rinfocolarsi delle diatribe.

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In verità già nel 1896, sul periodico maceratese del 16 settembre di quell’anno, l’Astolfi interpretando (erroneamente) lo scritto del Pallotta cercò di conciliare i documenti del 1503-1505, che parlavano della “loggia farnesia” allora edificata, con quelli riferiti dal Pallotta stesso circa la costruzione, in toto, della “loggia dei mercanti”, ipotizzando l’edificazione del tutto in due tempi: pianterreno 1503-1505 e piano superiore 1581. Un contributo al già ingarbugliato argomento fu apportato dal Foglietti che, nell’archivio priorale, rinvenne la deliberazione consiliare del 17 luglio 1485 con cui si stabiliva “quod Domini Priores faciant expedire logiam in capite platae et si aliquid mandatum de non exequendo fieret ex parte Reverendissimi Domini Locumtenentis appellatur”. In quel momento (1904) era a Macerata il critico d’arte tedesco Cornelius von Fabriczy che “appena ebbe osservata la loggia disse che essa, indubbiamente, era opera pregevolissima del Da Maiano” E Lattanzio Ventura..? Il giudizio dello studioso e il documento maceratese indussero il Foglietti ad as-serire che la loggia “fu edificata (nel 1485) per la parte inferiore mentre giusto venti anni dopo (1505) venne sopra di essa edificata un’altra loggia” concordando, in parte, con il pensiero dell’Astolfi espresso già nel 1896… “quando d’arte non mi intendeva”. Il Foglietti, allora, fornì al Fabriczy il documento maceratese avvalorandolo con la considerazione che il Da Maiano nel 1482 era stato chiamato a consulto per la strutturazione  del  palazzo  oggi  prefettizio. Nel 1905 uscì sullo “Jahrbuch der Preuss Kunst” l’articolo dello studioso “Giuliano da Majano a Macerata”, sulla scorta dei documenti del Foglietti.

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Purtroppo per la tesi Foglietti-von Fabriczy la premessa era errata perché, forse per l’opposizione del Vicelegato (Giovanni Venieri recanatese?), il progetto non ebbe seguito. Solo nel 1491 si portò a termine la “logia noviter facta iuxta palatium magnum comunitatis” che l’Astolfi identifica con quel corpo di fabbricato che nei primi del ‘900 ospitava lo studio dello scultore G.B.Tassara e che fu poi demolito, nel 1919, per la costruzione del ben noto “palazzo a tergo”. Altro elemento di confusione apportò il Compagnoni dubitando sulla costruzione, da attribuirsi al cardinal Vera, della “Loggia”. Il porporato non vagheggiò, come scrisse lo stesso Astolfi in altro luogo, ma si trovò con l’Amministrazione comunale per due convergenti motivi: il ricorrente problema della “gabella” e la sistemazione degli uffici e della sempre crescente Corte legatizia. Scrisse, infatti, il 28 ottobre 1501: “Pro ornamento et decoro civitatis et palatii nostri Maceratae decrevimus et ordinamus quod, pro logia Communis, apothecae Antonii ser Andreae, Iuliani Iulii et magistri Andreae Fotanis Albanensis, sitae in quarterio Sancti Salvatoris juxta plateam Communis, strata publica et alios fines, destruantur at funditus omnino demolientur quo parietespaletii deteriores apparent ut commodius a nobis et successoribus nostris inhabitantur et circulentur”. Questa ultima frase appare illuminante.

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Lo inhabitantur sta a indicare un luogo chiuso, mentre circulentur identifica un’area aperta ossia la “logia Communis”. La nuova costruzione determinò la chiusura di un vicolo e l’ampliamento, verso ovest, del palazzo legatizio ove, nel primo piano, furono alloggiati gli uffici dei “luogotenenti civili”, come si legge ancora sugli architravi delle finestre. Le arcate della “loggia” del Vera prima del restauro Viviani erano visibili nella fotoincisione gentilmente favorita dal  cavalier  professor  Ruggero Pannelli. Il Foglietti reagì alle critiche con un articolo pubblicato in “Studi marchigiani” del 1907, arrecando – stavolta a beneficio del Ventura – la sopraelevazione a Ferrante Farnese, che fu Legato della Marca dal 1594 al 1595, mentre il Ventura operava a Macerata nel 1581-1583. Ormai, però, nonostante qualche “disattenzione” l’assunto dell’Astolfi fu acquisito da tutti. Quindi sono da seguire, seppure con qualche eccezione, le indicazioni dell’Astolfi, integrandole con qualche altra nozione. L’8 dicembre 1502 era arrivato in città il nuovo Legato della Marca, Alessandro Farnese, che si interessò quasi subito a portare avanti le idee del Vera, suo predecessore. Evidentemente alle sue pressioni si dovette la delibera del 24 giugno 1503 con la quale si stabilì di edificare una loggia “ad usum totius populi, inferius et superius ad usum Praelatorum aut Praesidum”. Conseguentemente il giorno successivo si deliberò di compensare l’Abbazia di Fiastra della perdita della bottega da demolire per la costruzione della loggia voluta dal Farnese; bottega che l’Abbazia aveva dato in enfiteusi a Giuliano di Girolama di Paolo Ulissi. I “Libri expensarum” comunali, citati dall’Astolfi, recano i nomi di molto meno noti artefici.

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A cominciare dal 25 giugno 1504 si ha una serie di annotazioni a favore di “Magistro Cassiano da Fabriano et socio fabricatoribus logiae palatii magni pro parte solutionis ducentorum florenorum (100 scudi) monetae deputatorum fabricae dictae logiae…”. Conclude pertanto l’Astolfi che “fabbricatori e presumibilmente anche ideatori furono dei semplici costruttori di buon gusto”. Che fossero uomini tecnicamente preparati si evince dal fatto che il 31 marzo 1514 fu “locata fabrica Portus Recanatensis Cassiano Nanni muratori de Fabriano et in societatem per eum assumptus Matheus Sabatini de Fabriano”. Il “buon gusto” dei due, specie del maestro Cassiano, pur nel “calligrafismo toscano” rilevato dai critici appare ancor oggi evidente, nonostante le manomissioni. Il “camerone”,  già quasi spregiato dal Foglietti,  è ancor oggi costituito (anche se menomato) da un grande ambiente caratterizzato da un’ampia volta a padiglione su peducci alternantisi alle classiche “unghie”, terminante in una “scarsella” dominata (un tempo) dallo stemma cardinalizio del Farnese, probabile opera di quel maestro Antonio che modificò “agevolmente” le armi dei Venieri in quelle dei Farnese (i famosi “gran gigli d’oro” del Caro) dei capitelli, mentre i peducci e i capitelli delle colonne “addossate”, essendo stati realizzati in travertino locale, riuscirono meno felici. Il “buon gusto” dei due fabricatores appare ancora nella scelta delle colonne, che operarono nei confronti di quelle messe in vendita da Giacomo Venieri, evidentemente rimasto “in panne” dopo la morte del cardinale Anton Giacomo, morto nel 1479, che condizionò la costruzione recanatese. Infatti ne scelsero sei. Tre più massicce per il piano terreno e tre di minor diametro per il piano superiore conferendo, con questo artificio, maggior leggerezza al tutto. Evitando pesantezza visiva all’insieme viste le notevoli superfici murarie, pur se interrotte da nicchie destinate, forse, a ospitare dipinti. Il nome del committente e la data finale dei lavori sono attestati nella cornice marcapiano che, dal lato sud, reca l’iscrizione “PUBLICAE PICOENI COMMODITATI MDV”  mentre sulla parte di est si legge : “IULIO II PONT. MAX. CARD. FARNENSIUS LEGAT.” Sull’angolo fu posto lo stemma di Papa della Rovere.

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Un primo intervento modificatorio si ebbe nel 1521 quando Girolamo di Paolo Ulissi, confinante, chiese di aprire una porta a metà della parete lunga per sistemarvi l’ingresso a una sua bottega. Curiosa e di carattere “peripatetico” fu l’usanza introdotta fin dalla fondazione dell’Ateneo (1540) per cui i docenti concurrentes dovevano “circulare alternis diebus in logia sive porticu in apice platea”. Atteso l’afflusso di studenti e borghesi, nel 1573 Nicolò libraro e Onofrio mercante bergamasco qui tenevano botteghe aperte. Qui si affollavano anche gli ambulanti per la vendita delle loro merci sicché, nel 1596, si dovette espellerli. Ma, quasi a sostituirli, vediamo che, a esempio, nel 1633-35 qui Giambattista Natalini vendeva vino al minuto. Il Pallotta ascrive a “Monsignore Artieri Delegato al governo della Provincia” la proposta di “rompere il parapetto della loggia per assestarvi una ringhiera di ferro”, forse in occasione della deprecata tamponatura difficilmente databile ma da attribuire a quell’epoca. Sia nella pubblicazione di Jacopo Lauro “Heroico splendore delle città del mondo: Macerata – Roma 1649” che nella veduta di Macerata annessa alla “Reggia Picena” del Compagnoni (1661) si può vedere la chiusura della loggia superiore già compiuta. C’è, però, da considerare che l’Altieri ebbe il governo della Provincia, e solo interinalmente, per qualche mese del 1637 e per un breve periodo del 1641. Non sappiamo, quindi, se all’Altieri di deve “il capriccio di un delegato che volle ridurre la loggia superiore a camera da letto per godere della frescura nella stagione estiva; ne furono chiuse le arcate con muri aventi finestre alte e basse, ornate da cimase del peggior stile barocco che possa mai vedersi”. Le “vedute” citate escludono pertanto l’accusa che avrebbe potuto essere ascritta a Giuseppe Estense Mosti, che governò la Provincia dal 1673 al 1676 e al quale, sostituendo l’arma di Giulio II, fu innalzato lo stemma sull’angolo della loggia. Forse al restauro del 1678 si dovette l’apposizione dello stemma Mosti. Altra manomissione si ebbe quando, il 28 gennaio 1783, per gli atti di Antonio Cotoloni il Comune incaricò tal Francalancia, mastro muratore, di “formare due botteghe a livello del Palazzo Apostolico” ove depositare le tavole utilizzate per il mercato settimanale. Questi locali apparvero, poi, appetibili con l’affermarsi anche in città dell’uso del caffè. Una prima domanda in merito fu avanzata da un anonimo cittadino che, però, ottenne un rifiuto per il timore di danneggiare gli esercenti il commercio di generi vari. Altra simile domanda si ebbe da parte  di Domenico Notari.  Poi,  ancora,  nel 1797  il droghiere Francesco Ringressi ottenne i locali in affitto. Lo stesso Ringressi ebbe, dal governo della Repubblica Romana, con atto Lorenzini di Roma, la vendita dei locali; vendita confermata dal ripristinato governo papale (atti Patriossi) il 24 marzo 1802. Vi fu aperto, allora, il caffè a opera di tal Pietro Carlucci nel 1806. Francesco Ringressi il 15 maggio 1818 vendette tutto al conte Lauro Lauri, nuovo proprietario del palazzo attiguo (atti Salustri). Il caffè del Carlucci ebbe successo anche perché dall’apertura praticata già nel ‘500 dagli antichi proprietari, gli Ulissi, avveniva la distribuzione della posta mentre, nei giorni di mercato, i commercianti di granaglie presentavano ai clienti le loro sementi, sicché la loggia era detta “del grano” o, anche, “del caffè”. Qualche addentellato con le vicende risorgimentali maceratesi può rilevarsi quando il nuovo conduttore del “Caffè grande”, subentrato nel 1852, intorno a quell’anno appese nel locale un grande ritratto di Napoleone I. Anche se in ritardo, se ne accorse il Delegato apostolico monsignor Achille Apolloni che, nei primi del 1860, ne ordinò la rimozione. Ma il 20 settembre di quell’anno arrivarono i piemontesi alleati del terzo Napoleone per cui, molto probabilmente, il ritratto non venne rimosso.

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Oltre 40 anni dopo, auspicando lo svolgimento della ben nota Esposizione Marchigiana, l’avvocato Milziade Cola, allora sindaco, propose al Consiglio provinciale il restauro della Loggia. Si costituì una Commissione formata dai Consiglieri provinciali ingegner Luigi Mariani, conte Gustavo Perozzi e architetto Gaetano Koch. Quest’ultimo (autore dei romani palazzi Margherita, Banca d’Italia, Esedra di Termini) consigliò di sistemare la copertura con un tetto “alla fiorentina” sull’esempio del Palazzo Giugni di Bartolomeo Ammannati. Il 18 aprile 1905 iniziarono i lavori che terminarono l’11 agosto. Mentre non fu possibile riaprire la “scarsella”, ormai di proprietà Lauri, con un sottile senso di sarcasmo si conservò il balconcino caratterizzato  da una  ringhiera di ferro,  che la tradizione volle utilizzato dal Delegato apostolico monsignor Giacomo Antonelli (1839 – 41, poi Segretario di Stato di Pio IX) per “occhieggiare” la contessa Teresa Graziani in Lauri. Comunque la tradizione “caffettiera” continuò grazie anche all’attività del simpaticissimo “Nandì” Morresi che fece della Loggia un motivo pubblicitario per il suo rinomatissimo “Panettone”. Con il Morresi ebbe termine un’epoca anche per la Loggia e, si può dire, per il Centro Storico cittadino. Con i progetti di un artista detto “nefando” si demolì il palazzo adiacente, arretrandolo; si modificò anche la “scarsella” ritrovandosi lo stemma del Farnese; sopra la Loggia furono innalzati (anche se solamente in prospettiva) quattro gradoni di appartamenti. In compenso lo stemma farnesiano fu sistemato, quasi a soffitto, su di uno stretto passaggio in modo che fosse quasi impossibile notarlo. Addio Loggia.

 

Foto di Cinzia Zanconi

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