VIA MOZZI

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Tratto da Macerata tra storia e storie

di Fernando Pallocchini

 

Via Mozzi
Via Mozzi

 

Nel 1300 questa via era esterna alle fortificazioni e si chiamava “Borgo di Santa Caterina” per la vicinanza alla stessa chiesa; quando questa venne trasferita più a monte la via assunse, fino al 1600, la denominazione di “Borgo vecchio” a eccezione della parte iniziale, a ovest, che fu detta “Strada di San Lorenzo” per il tempio e il monastero che lì insistevano. Divenne “via Mozzi” nel 1874, in memoria dei fratelli Bartolomeo e Giuseppe Mozzi. Il primo, filosofo e teologo, viaggiò molto con il fratello raccogliendo vegetali e minerali con cui realizzare un museo di storia naturale. Donò libri e sussidi alla biblioteca cittadina tanto da dover vendere un suo palazzo accanto alla Loggia dei Mercanti e morì tragicamente, barbaramente trucidato dai Cisalpini durante il saccheggio del 1799. Giuseppe, invece, fu a Parigi, Londra, Cambridge, studiò l’inglese e intrattenne relazioni culturali anche con il Langham. In Inghilterra stampò numerosi libri, donati dopo la sua morte alla biblioteca di Macerata che conserva pure suoi scritti inediti. In via Mozzi c’è Giancarlo, un artigiano, sul suo deschetto in ciliegio ha il trincetto, lesine di varie misure per “cucire a mano”, mastice, il “mittivollette” alto un metro per inchiodare tacchi e suole, il “ferru da stiru” per battere le suole e ammorbidirle, spazzole di metallo e di setole, tronchesi, pinze, lime, raspe e carta vetrata. Il “cacciaforme” per togliere le forme da dentro la scarpa e attrezzi per sformare la calzatura, ferri a caldo, a rotella, marcapunti, ferri da tacco, il “viseculu” in legno di bosso per lucidare il cuoio a mano, calzanti in ferro per inserire le forme nelle scarpe, rivettatrici, occhiellatrici, bucatrici, forme per allargare le scarpe, “semicie” e chiodini di varie misure. Ci sono anche macchine moderne ma, dice Giancarlo, non fanno parte della tradizione. La bottega comunica con la strada attraverso la porta d’ingresso che, così, diventa una finestra spalancata sul mondo e sulle sue trasformazioni.

Via Mozzi
Via Mozzi

Bora Giancarlo ripara scarpe in via Mozzi dal 1964, inizial-mente in 3 mq di spazio (ci lavoravano in tre: un metro a testa!) poi in un locale più ampio vicino a largo Beligatti. Via Mozzi, un tempo popolosa, ha visto fuggire tanti abitanti verso Collevario, in case più moderne e il lavoro del calzolaio ha iniziato a volgere al termine, sono cambiate le scarpe, è mutato il sistema, impera l’“usa & getta”, sono finiti i tempi in cui servivano riparazioni urgenti perché quello era l’unico paio di scarpe, o quando le mamme portavano borsate di scarpe di bambini raccomandando: “Che la suola sia buona!” perché i bimbi facevano tanta strada a piedi calciando tutti i sassi che incontravano. Oggi non si vedono più donne, nei giorni di festa, a 20 metri dalla chiesa togliersi gli zoccoli per calzare le “scarpe buone” o quei tre fratelli che andavano a messa in tre funzioni consecutive per avere, in tre, un solo paio di scarpe da indossare a turno. Ora c’è la plastica, i bimbi hanno piedi umidi e problemi di funghi mentre le donne, con scarpe sempre più “sacrificate”, hanno piedi deformati con dita a martello e sovrapposte. Altri artigiani popolavano la via… non c’è più Mochi “gambadilegno” che aggiustava le bici lavorando seduto fuori dalla bottega, con la gamba di legno tesa verso la strada; un giorno un ragazzo in motorino la colpì in pieno e se la portò via. Cadde, sconvolto, sicuro di aver staccato una gamba buona! Poi c’era Duilio, il fabbro, sempre pronto a inventarsi una soluzione come quando Giancarlo trovò il laboratorio (tre gradini sotto il livello stradale) allagato e l’amico gli realizzò un gocciolatoio tuttora funzionante. Più avanti batteva il rame Gigino Bonotti, 130 chili, sempre in lite con coloriti insulti con chi parcheggiava l’auto davanti alla bottega chiudendogli l’ingresso. Appassionato di cucina una volta preparò una tavolata in un vicolo posteriore per tutti gli amici del vicinato. Cose che oggi non si fanno più, testimonianze di un tempo ormai passato.

continua

 

Foto di Cinzia Zanconi

 

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