Il rosso fiore della violenza – II puntata

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di Matteo Ricucci

 il rosso fiore della violenza

“Che tempi, Madonna mia! Sempre scioperi, tutti i santi giorni, a qualsiasi ora e per qualsiasi ragione! – esclamò la Tata scandalizzata – E’ come se avessero inventato un mestiere nuovo, quello di non lavorare! Eh, i nostri vecchi! Quelli sì che faticavano, anche dodici ore al giorno e senza fare tante storie. Si addormentavano di colpo con la faccia nella scodella,tanta era la stanchezza!” – “Già, proprio bei tempi quelli!” Esclamò con ironia Angela. “Ma tu, figlia mia non t’immischiare in queste brutte faccende. Lasciale agli altri, stanne alla larga, perché è pericoloso! Hai ascoltato ciò che ha trasmesso la radio ieri sera?” – “No, perché cosa ha detto?” – “Non ricordo più in quale città c’è stata una manifestazione di protesta, ma non so per cosa, quando hanno cominciato a sfasciare tutto. La polizia ha caricato i dimostranti con le camionette così un povero passante è stato investito ed è morto! Pace all’anima sua e che Dio lo abbia in gloria!” E si fece il segno della croce. “Stai tranquilla, Tata, so badare a me stessa”. La ragazza aveva ormai deciso di andare ugualmente a scuola, sperando in cuor suo che nel frattempo la manifestazione fosse annullata. Andò nel bagno a prepararsi: non era tranquilla e provava un senso di malessere, pensando a quel poveraccio finito sotto le ruote della camionetta della polizia. Angela si chiedeva chi fosse e se avesse famiglia. Pensava alla violenza politica di quei giorni che stava squassando la Società italiana dalle fondamenta e pensava anche a suo padre per il quale provava rimorso per le sue critiche e per il suo risentimento: non gli aveva mai perdonato il suo secondo matrimonio, ma non gli perdonava ancora di più l’aver sposato una donna giovane quasi quanto lei e forse anche più bella. Quando era in vena di autocritica, lei si chiedeva se fosse giusto rimproverare il padre per il suo desiderio di continuare a vivere la sua vita in compagnia di un’altra donna. Angela fece una rapida e profonda inspirazione, afferrò lo zaino dei libri e, dopo aver baciato la Tata, uscì. Stava percorrendo il marciapiede, quando da un portone vide uscire lo studente Alberto Panizza, suo compagno di corso e capo riconosciuto del collettivo studentesco. Era un bel ragazzo sui diciotto anni, alto, dai lunghi capelli biondi, tenuti insieme da una bandana di seta indiana. Aveva gli occhi di un azzurro chiaro che emanavano una fredda luce di comando che tanto affascinava le ragazze dell’istituto e non solo quelle. Vestiva jeans e maglietta dello stesso colore stinto. Alberto era il minore di sei fratelli, figli di un ricco commerciante di elettrodomestici. Papà Panizza e sua moglie, entrambi anziani, potevano essere scambiati per i nonni di Alberto. Il fatto curioso fu che la miopia di un ginecologo, consultato per dei disturbi della signora Panizza, sbagliò diagnosi, confondendo una tardiva gravidanza con un fibroma uterino, e poco mancò che, con l’utero, fosse strappata via dalle viscere anche la vita di Alberto. Forse per questo pericolo corso, o forse perché l’ultimo della nidiata, il piccolo fu sempre coccolato e vezzeggiato. Angela rallentò il passo per non farsi scorgere da Alberto, verso cui provava sempre una fastidiosa soggezione mista a uno strano sentimento che lei non riusciva a definire: lo temeva per quel suo modo spiccio di parlare alla gente ma in fondo lo ammirava, come tutte le altre ragazze del liceo. Alberto, dal canto suo, era troppo preso dalla sua militanza politica e dai suoi studi, per aver tempo da dedicare ai sentimenti. Angela non ebbe il coraggio di salire sullo stesso autobus e aspettò il successivo. Era un po’ arrabbiata con se stessa per quella sua timidezza che sempre l’angustiava nei momenti difficili della sua vita. Quando giunse davanti al liceo, il corteo dei manifestanti era quasi pronto; già sventolavano le rosse bandiere della militanza comunista e già venivano stesi, da un lato all’altro della strada, gli striscioni con invettive e slogan: “Giù le mani dalla scuola!”, “Siamo per una gestione libera e democratica!”, “A noi la scuola, agli operai le fabbriche!”, “Polizia, manganello dello Stato fascista!”. Il clangore degli urli, la percussione di decine di tamburi, i sibili dei fischietti, gli squilli delle trombe e i battimani assordivano e stordivano anche a distanza. Angela percepì un crampo allo stomaco, quando si rese conto che Alberto stava fissando proprio lei. Provò la strana sensazione che le gambe stessero per prendere autonomamente l’iniziativa di darsi alla fuga, ma un senso di ribellione la costrinse ad affrontarlo per l’ennesima volta.

 

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